La sesta catacomba. di Oreste Paliotti
È quella dei Santi Marcellino e Pietro sulla via Casilina, da poco riaperta al pubblico. Simboli, immagini, recenti scoperte nei cimiteri paleocristiani. A colloquio col prof. Fabrizio Bisconti
Domitilla, Priscilla, San Sebastiano, San Callisto, Santa Agnese… Erano queste, fino a poco tempo fa, le catacombe romane aperte al pubblico. A questi cinque celebri complessi cimiteriali si è aggiunta, di recente, una sesta catacomba: quella dei santi Marcellino e Pietro sulla via Casilina, l’antica Labicana. Terza per estensione dopo San Callisto e Domitilla, comprende un’area di 18 mila metri quadrati ed è di importanza fondamentale per lo studio degli antichi cimiteri cristiani grazie al suo ciclo di affreschi, tra i meglio conservati di epoca paleocristiana. E proprio alla necessità di non alterare il microclima degli ambienti sotterranei e ai restauri ancora in corso, finanziati da una fondazione dell’Azerbaigian, si deve la sua parziale apertura al pubblico (solo il sabato e la domenica mattina).
Questa catacomba, distribuita su due piani, faceva parte di un complesso di proprietà imperiale denominato Ad duas lauros (Ai due allori), che comprendeva anche una basilica costantiniana, un cimitero degli Equites singulares (scorta a cavallo dell’imperatore) e un mausoleo a pianta circolare nel quale venne sepolta Elena, madre di Costantino, i cui imponenti ruderi hanno dato a questo quartiere romano il nome di Tor Pignattara dalle anfore o pignatte annegate nel calcestruzzo della cupola per alleggerirne il peso.
Titolari di questo antico cimitero sono Marcellino e Pietro, rispettivamente presbitero ed esorcista romani martirizzati nel 303 sotto Diocleziano, le cui spoglie vennero però trafugate in epoca carolingia per essere trasferite prima in Francia e poi a Selingenstadt, in Germania. La riapertura del sito è l’occasione per una breve intervista al prof. Fabrizio Bisconti, soprintendente archeologico della Pontificia Commissione di Archeologia sacra. A lui, che ha diretto numerosi cantieri di scavo e restauro, si devono alcune rilevanti scoperte e una vasta serie di pubblicazioni scientifiche e divulgative (1).
Professore, non le sembra che la ricchezza delle catacombe romane sia ancora poco conosciuta?
«Vede, il turista che soggiorna a Roma solo per un breve periodo sicuramente desidera visitare San Pietro, i Musei Vaticani, il Colosseo, il Foro romano… Dirottarlo fuori da questo circuito solito per raggiungere una catacomba più decentrata, attraverso vie spesso congestionate dal traffico, vuol dire impegnare un intero pomeriggio. Molto dipende anche dalle agenzie turistiche, che talvolta nell’arco limitato di due giorni, dopo un giro nel centro storico, sono capaci di organizzarti una visita anche agli scavi di Pompei. È chiaro allora che da questo programma mordi e fuggi risultano eliminate subito le catacombe».
L’immenso giacimento iconografico paleocristiano delle catacombe e delle basiliche sembra fatto apposta per veicolare un messaggio…
«Sì, si tratta di segni e simboli ricavati specialmente dal Vecchio e dal Nuovo Testamento, ma anche dalla cultura tardoantica pagana. Con le stesse dinamiche della comunicazione dei nostri giorni (pensiamo agli spot pubblicitari) le figure degli affreschi, dei sarcofagi e dei mosaici si ripetono sempre secondo lo stesso schema: Daniele viene raffigurato tra i leoni, i giovani nella fornace, Susanna tra i vecchioni, Noè nell’arca ecc. Le navate delle basiliche – lo sappiamo dalle descrizioni fatte da Eusebio di Cesarea, Paolino di Nola, Prudenzio o Ambrogio – erano letteralmente rivestite di scene tratte dalla Sacra Scrittura con una finalità catechetica nei riguardi del fedele comune e dei catecumeni».
C’è una bella differenza tra la ricchezza di immagini delle antiche basiliche e certe chiese moderne, alquanto spoglie…
«Vede, la nostra è una mentalità molto più sofisticata: pretende dal frequentatore dell’ambiente sacro una riflessione molto complessa, che attinga il mondo dello spirito attraverso una serie di passaggi di pensiero. Per i cristiani dei primi secoli tutto questo avveniva in modo molto più semplice e veloce».
Mi ha sempre colpito la visione positiva espressa dalle iscrizioni e dalle immagini funerarie delle catacombe…
«In realtà la loro vera denominazione era coemeterium, che vuol dire “dormitorio”: parola con la quale si esprimeva una situazione provvisoria. Sui loculi, molto semplici e simili fra loro, spesso non è scritto neanche il nome o, se lo è, non è accompagnato dal cursus honorum consueto nell’epigrafia classica pagana: questa sobrietà rispecchiava l’uguaglianza di fratelli uniti in un unico abbraccio, in attesa della resurrezione finale. E “positivi” sono gli affreschi che rivestono arcosoli e cubicoli con le loro frequenti rappresentazioni di giardini fioriti (il paradiso), mentre sono assenti scene violente di martirio e di sangue: Abramo è fermato mentre sta per vibrare il colpo mortale, i giovani non sono bruciati dalle fiamme, Daniele è salvato dai leoni… Tutto questo, insieme al fatto che erano illuminate da lucerne e rallegrate da fiori, sta a indicare che le catacombe erano luoghi che ispiravano serenità. Era evidente che per i primi cristiani la morte non era l’ultima parola».
Come è nato il culto dei martiri dei primi secoli?
«All’inizio i martiri erano fratelli come gli altri, venivano sepolti nelle aree cimiteriali comuni. Ben presto però molti fedeli desiderarono essere sepolti vicino al martire: credevano che in tal modo gli sarebbero stati vicini anche nell’aldilà. Coloro che si occupavano della gestione dei cimiteri cominciarono allora a porre dei segnali attorno alle loro tombe (pensiamo agli apostoli Pietro e Paolo, di cui il presbitero Gaio già nel III secolo vedeva i trofei sulle loro tombe). Ebbe inizio così una devozione, un pellegrinaggio testimoniato anche dai graffiti lasciati sulle tombe dei martiri o accanto ad esse; e finalmente, nell’Alto medioevo, dalle icone degli stessi santi e martiri. Come nella catacomba di Domitilla, dove l’effigie di Veneranda vicino alla martire Petronilla indica questa religio amicitiae, questa vicinanza tra martiri e defunti ordinari divenuti loro compagni di viaggio nell’aldilà».
Si devono a lei scoperte fondamentali riguardanti le più antiche immagini degli apostoli Pietro e Paolo…E
«Lei si riferisce alle scoperte fatte a Santa Tecla sulla via Ostiense: si tratta delle prime icone di Pietro e Paolo, affrescati all’interno di clipei sul soffitto del cubicolo di una matrona romana che si era fatta seppellire in questa catacomba, icone allargate ad altri due apostoli, Andrea e Giovanni. Sono effigi di ricostruzione, naturalmente, ma sono molto importanti perché definiscono fisionomie che poi verranno ripetute nella Ravenna placidiana, teodoriciana e bizantina. Ancora più recente è la scoperta, a Priscilla, di un affresco raffigurante l’apostolo delle genti. Grazie alle nuove tecniche del restauro col laser, nelle catacombe stiamo facendo nuove scoperte e spesso ci imbattiamo nella figura di Paolo».
E nella catacomba appena riaperta al pubblico?
Ai Santi Marcellino e Pietro, dove per la prima volta una istituzione di un Paese musulmano come l’Azerbaigian ha contribuito al recupero e alla valorizzazione di un monumento cristiano, il laser ha permesso di effettuare vere e proprie scoperte: ad es. nel cubicolo di Susanna, dove sono apparse le figure del Buon Pastore, della moltiplicazione dei pani, del paralitico e di Noè nell’arca; o ci ha offerto rinnovate immagini di Daniele tra i leoni e di Orfeo, il mitico cantore trace che, suonando la cetra, ammaliava gli animali selvaggi e feroci e nel quale l’immaginario cristiano riconosceva Cristo».
1) Tra i volumi più recenti: Primi cristiani (Libreria Editrice Vaticana), e – in collaborazione con R. Giuliani e B. Mazzei – La Catacomba di Priscilla (Tau Editrice).
Rispondi