SALUTO DEL RABBINO CAPO DI ROMA, Riccardo Di Segni
Benvenuto, papa Francesco,
nel Tempio Maggiore di Roma; nel luogo che fu edificato a segno della libertà ottenuta dopo secoli di restrizioni e di umiliazioni; nel luogo visitato da re, presidenti, ministri; offeso dai nazisti e insanguinato dal terrorismo palestinese; ma soprattutto nella casa di preghiera in cui gli ebrei romani hanno celebrato e continuano a celebrare i momenti più importanti della loro vita privata e collettiva. Oggi il Tempio accoglie con gratitudine questa terza visita di un papa e vescovo di Roma. Secondo la tradizione giuridica rabbinica, un atto ripetuto tre volte diventa chazaqà, consuetudine fissa. È decisamente il segno concreto di una nuova era dopo tutto quanto è successo nel passato. La svolta sancita dal Concilio Vaticano cinquanta anni fa è stata confermata da numerosi e fondamentali atti e dichiarazioni, l’ultima di un mese fa, che hanno prima aperto e poi consolidato un percorso di conoscenza, di rispetto reciproco e di collaborazione.
A ricevere papa Francesco è la Comunità ebraica di Roma. Lo accogliamo nella consapevolezza di essere una comunità di fede con una vocazione antica e sacra, che, come fu promesso ad Abramo, invoca la benedizione su chi ci benedice. Nel nostro pubblico è qui presente la memoria storica della comunità, gli ormai purtroppo pochi sopravvissuti agli orrori dei campi di sterminio, i feriti degli attentati terroristici, ma anche i testimoni e i protagonisti dell’intensa vita organizzativa e religiosa di questa nostra comunità, che non solo resiste alle seduzioni del tempo, ma investe le sue energie in una crescita spirituale e sociale fedele agli antichi insegnamenti. Una dimostrazione bella e costruttiva di testimonianza di valori in una società che stenta a trovare la sua strada.
Insieme agli ebrei romani sono qui i rappresentanti dell’ebraismo italiano e dell’ebraismo mondiale, rabbini italiani, delegazioni rabbiniche israeliane e europee e rappresentanti del governo e dello Stato d’Israele. E anche tante persone che lavorano attivamente per consolidare un rapporto di amicizia tra le persone delle due fedi. Questo evento non è evidentemente limitato alla comunità ebraica geograficamente più vicina al cuore del cattolicesimo. È un evento la cui portata si irradia in tutto il mondo con un messaggio benefico.
La visita di papa Francesco avviene all’inizio di un anno speciale per i cristiani, da Lui indetto. La Bibbia ha istituito il Giubileo, che il popolo ebraico non ha potuto più celebrare nelle forme prescritte perché legate a particolari condizioni storiche e politiche; ma l’idea originale della Torà rimane comunque valida in quanto rappresenta un modello di rifondazione della società sulla base della dignità, dell’uguaglianza e della libertà. In ogni caso il popolo ebraico mantiene il conto degli anni sabbatici che moltiplicati per sette sono la base del Giubileo; nell’anno sabbatico – l’ultimo è appena trascorso – la terra d’Israele deve riposare e i debiti vengono rimessi. Tra pochi giorni festeggeremo il Capodanno degli alberi, anch’esso collegato al ciclo agricolo della terra d’Israele. Tanti segni che ribadiscono il rapporto essenziale e religioso che abbiamo con la terra che ci è stata promessa. Comprendere questo legame non dovrebbe essere una difficoltà per chi rispetta la Bibbia, ma lo è ancora.
In questi giorni in cui i cristiani celebrano con antichi riferimenti e nuovi significati un anno speciale centrato sul tema della misericordia, non ci è sfuggito il momento iniziale in cui all’apertura della Porta è stata recitata la formula liturgica “aprite le porte della giustizia”. Per un
ebreo che ascolta, è qualche cosa di noto e familiare, è la citazione del verso dei Salmi (118:19) pitchú Il sha’arè tzèdeq, che noi citiamo nella nostra liturgia festiva. È un confronto interessante. L’evento della cristianità centrato sulla misericordia mantiene un rapporto con le origini bibliche, usa i versi dei Salmi, da cui riprende il tema della giustizia che è indissociabile dalla misericordia. È un segno di come le strade divise e molto diverse dei due mondi religiosi condividono comunque una parte di patrimonio comune che entrambe considerano sacro. Questa divisione è un dato storico antico. Nelle diverse visioni può essere considerata un dramma, un enigma o un evento provvidenziale. Certo è che la divisione ha garantito la crescita di grandi patrimoni spirituali autonomi, ma ha portato anche ostilità, persecuzioni e sofferenze. Tutti attendiamo un momento chissà quanto lontano nella storia in cui le divisioni si risolveranno. In che modo, ognuno ha la sua visione. Ma nel frattempo ciascuno, rimanendo fedele alla propria tradizione, deve trovare un modo di rapportarsi all’altro. In pace e con rispetto.
Alla luce di questo, credo che siano due i segnali principali da mettere in evidenza in questo incontro di oggi. Il primo è quello della continuità. Il terzo papa a visitare la nostra Sinagoga conferma la validità e l’intenzione del gesto del primo papa che voleva significare la rottura con un passato di disprezzo nei confronti dell’ebraismo; l’intuizione di Giovanni Paolo Il fu quella di tradurre in gesti concreti e messaggi essenziali e comprensibili a tutti le difficili elaborazioni dottrinali del Concilio. La sua visita alla Sinagoga ebbe questo ruolo e a sua volta aprì la strada per il riconoscimento dello Stato d’Israele. II papa successivo, Benedetto, ha voluto confermare questa linea; ora la scelta di Francesco stabilisce una consuetudine. Interpretiamo tutto questo nel senso che la Chiesa Cattolica non intende tornare indietro nel percorso di riconciliazione. L’impegno personale di papa Francesco lo conferma, nei molti segni di attenzione che ha dimostrato nei confronti dell’ebraismo, da Buenos Aires come arcivescovo a Roma come papa. Ora è qui con noi.
Il secondo segnale di questa visita è dettato dall’urgenza dei tempi. II Vicino Oriente, l’Europa e tante altre parti del mondo sono travagliate da guerre e terrorismo. La triste novità dei nostri giorni è che dopo i due secoli di disastri prodotti da nazionalismi e ideologie la violenza torna a scatenarsi alimentata e giustificata da visioni fanatiche ispirate dalla religione. E di nuovo si scatenano persecuzioni religiose. L’impulso distruttivo, in assenza di altri riferimenti e scuse, trova nella religione il sostegno e l’alimento. Al contrario, un incontro di pace tra comunità religiose differenti, come quello che avviene ora a Roma, è un segnale molto forte che si oppone all’invasione e alla sopraffazione delle violenze religiose.
Non accogliamo il papa per discutere di teologia. Ogni sistema è autonomo, la fede non è oggetto di scambio e di trattativa politica. Accogliamo il papa per ribadire che le differenze religiose, da mantenere e rispettare, non devono però essere giustificazione all’odio e alla violenza, ma ci deve essere invece amicizia e collaborazione e che le esperienze, i valori, le tradizioni, le grandi idee che ci identificano devono essere messe al servizio della collettività. Dobbiamo insieme far sentire la nostra voce contro ogni attentato di matrice religiosa, in difesa delle vittime. Ma non dobbiamo essere insieme solo per denunciare gli orrori; dobbiamo lavorare e collaborare nel quotidiano. La nostra comunità investe tutte le sue risorse per garantire il suo futuro ebraico, ma vive questo impegno in un rapporto armonico con la società, in favore di tutti.
Ieri in tutte le Sinagoghe dei mondo abbiamo letto i capitoli dei libro dell’Esodo che parlano dello scontro finale tra Mosè, che chiede al Faraone di liberare gli ebrei dalla schiavitù, e il Faraone, che gli si oppone con tutti i suoi mezzi. Non abbiamo un Mosè che ci guida, né, per fortuna, un Faraone da contrastare, anche se proprio la storia di questa Sinagoga dimostra che un re benevolo può trasformarsi in persecutore. Ma questa storia biblica, base delle nostre fedi, dimostra come la forza dello spirito riesce a trionfare e piegare anche i sistemi e i regimi più duri. Dobbiamo avere la consapevolezza della nostra forza e la fiducia nella bontà dei nostri valori. E procedere insieme per affermarli, in pace.
Abbiamo parlato di porte che si aprono. Vorrei citare, e condividere, per concludere, le parole dell’invocazione che recitiamo ogni giorno alla fine della preghiera della ‘amidà, secondo il rito italiano: “Che ci siano aperte le porte della Torà, della sapienza, dell’intelligenza e della
conoscenza, le porte dei nutrimento e del sostentamento, le porte della vita, della grazia, dell’amore e della misericordia e del gradimento davanti a Te”. “Che Ti siano gradite, o Signore, mia forza e mio redentore, le mie parole e l’espressione del mio cuore”.
SALUTO DI PAPA FRANCESCO
Cari fratelli e sorelle,sono felice di trovarmi oggi con voi in questo Tempio Maggiore. Ringrazio per le loro cortesi parole il Dottor Di Segni, la Dottoressa Dureghello e l’Avvocato Gattegna; e ringrazio voi tutti per la calorosa accoglienza. Todà rabbà!
Nella mia prima visita a questa Sinagoga come Vescovo di Roma, desidero esprimere a voi, estendendolo a tutte le comunità ebraiche, il saluto fraterno di pace di questa Chiesa e dell’intera Chiesa cattolica.
Le nostre relazioni mi stanno molto a cuore. Già a Buenos Aires ero solito andare nelle sinagoghe e incontrare le comunità là riunite, seguire da vicino le feste e le commemorazioni ebraiche e rendere grazie al Signore, che ci dona la vita e che ci accompagna nel cammino della storia. Nel corso del tempo, si è creato un legame spirituale, che ha favorito la nascita di autentici rapporti di amicizia e anche ispirato un impegno comune.
Nel dialogo interreligioso è fondamentale che ci incontriamo come fratelli e sorelle davanti al nostro Creatore e a Lui rendiamo lode, che ci rispettiamo e apprezziamo a vicenda e cerchiamo di collaborare.
E nel dialogo ebraico-cristiano c’è un legame unico e peculiare, in virtù delle radici ebraiche del cristianesimo: ebrei e cristiani devono dunque sentirsi fratelli, uniti dallo stesso Dio e da un ricco patrimonio spirituale comune (cfr Dich. Nostra aetate, 4), sul quale basarsi e continuare a costruire il futuro.
Con questa mia visita seguo le orme dei miei Predecessori. Papa Giovanni Paolo II venne qui trent’anni fa, il 13 aprile 1986; e Papa Benedetto XVI è stato tra voi sei anni or sono. Giovanni Paolo II, in quella occasione, coniò la bella espressione “fratelli maggiori”, e infatti voi siete i nostri fratelli e le nostre sorelle maggiori nella fede. Tutti quanti apparteniamo ad un’unica famiglia, la famiglia di Dio, il quale ci accompagna e ci protegge come suo popolo. Insieme, come ebrei e come cattolici, siamo chiamati ad assumerci le nostre responsabilità per questa città, apportando il nostro contributo, anzitutto spirituale, e favorendo la risoluzione dei diversi problemi attuali.
Mi auguro che crescano sempre più la vicinanza, la reciproca conoscenza e la stima tra le nostre due comunità di fede. Per questo è significativo che io sia venuto tra voi proprio oggi, 17 gennaio, quando la Conferenza Episcopale Italiana celebra la “Giornata del dialogo tra cattolici ed ebrei”.
Abbiamo da poco commemorato il 50º anniversario della Dichiarazione Nostra Aetate del Concilio Vaticano II, che ha reso possibile il dialogo sistematico tra la Chiesa cattolica e l’ebraismo. Il 28 ottobre scorso, in Piazza San Pietro, ho potuto salutare anche un gran numero di rappresentanti ebraici, e mi sono così espresso: «Una speciale gratitudine a Dio merita la vera e propria trasformazione che ha avuto in questi cinquant’anni il rapporto tra cristiani ed ebrei.
Indifferenza e opposizione si sono mutate in collaborazione e benevolenza. Da nemici ed estranei, siamo diventati amici e fratelli.
Il Concilio, con la Dichiarazione Nostra Aetate, ha tracciato la via: “sì” alla riscoperta delle radici ebraiche del cristianesimo; “no” ad ogni forma di antisemitismo, e condanna di ogni ingiuria, discriminazione e persecuzione che ne derivano». Nostra Aetate ha definito teologicamente per la prima volta, in maniera esplicita, le relazioni della Chiesa cattolica con l’ebraismo. Essa naturalmente non ha risolto tutte le questioni teologiche che ci riguardano, ma vi ha fatto riferimento in maniera incoraggiante, fornendo un importantissimo stimolo per ulteriori, necessarie riflessioni. A questo proposito, il 10 dicembre 2015, la Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo ha pubblicato un nuovo documento, che affronta le questioni teologiche emerse negli ultimi decenni trascorsi dalla promulgazione di Nostra Aetate. Infatti, la dimensione teologica del dialogo ebraico-cattolico merita di essere sempre più approfondita, e desidero incoraggiare tutti coloro che sono impegnati in questo dialogo a continuare in tal senso, con discernimento e perseveranza. Proprio da un punto di vista teologico, appare chiaramente l’inscindibile legame che unisce cristiani ed ebrei.
I cristiani, per comprendere sé stessi, non possono non fare riferimento alle radici ebraiche, e la Chiesa, pur professando la salvezza attraverso la fede in Cristo, riconosce l’irrevocabilità dell’Antica Alleanza e l’amore costante e fedele di Dio per Israele.
Insieme con le questioni teologiche, non dobbiamo perdere di vista le grandi sfide che il mondo di oggi si trova ad affrontare. Quella di una ecologia integrale è ormai prioritaria, e come cristiani ed ebrei possiamo e dobbiamo offrire all’umanità intera il messaggio della Bibbia circa la cura del creato.
Conflitti, guerre, violenze ed ingiustizie aprono ferite profonde nell’umanità e ci chiamano a rafforzare l’impegno per la pace e la giustizia. La violenza dell’uomo sull’uomo è in contraddizione con ogni religione degna di questo nome, e in particolare con le tre grandi religioni monoteistiche. La vita è sacra, quale dono di Dio. Il quinto comandamento del Decalogo dice: «Non uccidere» (Es 20,13). Dio è il Dio della vita, e vuole sempre promuoverla e difenderla; e noi, creati a sua immagine e somiglianza, siamo tenuti a fare lo stesso. Ogni essere umano, in quanto creatura di Dio, è nostro fratello, indipendentemente dalla sua origine o dalla sua appartenenza religiosa.
Ogni persona va guardata con benevolenza, come fa Dio, che porge la sua mano misericordiosa a tutti, indipendentemente dalla loro fede e dalla loro provenienza, e che si prende cura di quanti hanno più bisogno di Lui: i poveri, i malati, gli emarginati, gli indifesi. Là dove la vita è in pericolo, siamo chiamati ancora di più a proteggerla.
Né la violenza né la morte avranno mai l’ultima parola davanti a Dio, che è il Dio dell’amore e della vita. Noi dobbiamo pregarlo con insistenza affinché ci aiuti a praticare in Europa, in Terra Santa, in Medio Oriente, in Africa e in ogni altra parte del mondo la logica della pace, della riconciliazione, del perdono, della vita.
Il popolo ebraico, nella sua storia, ha dovuto sperimentare la violenza e la persecuzione, fino allo sterminio degli ebrei europei durante la Shoah. Sei milioni di persone, solo perché appartenenti al popolo ebraico, sono state vittime della più disumana barbarie, perpetrata in nome di un’ideologia che voleva sostituire l’uomo a Dio. Il 16 ottobre 1943, oltre mille uomini, donne e bambini della comunità ebraica di Roma furono deportati ad Auschwitz. Oggi desidero ricordarli col cuore, in modo particolare: le loro sofferenze, le loro angosce, le loro lacrime non devono mai essere dimenticate.
E il passato ci deve servire da lezione per il presente e per il futuro. La Shoah ci insegna che occorre sempre massima vigilanza, per poter intervenire tempestivamente in difesa della dignità umana e della pace. Vorrei esprimere la mia vicinanza ad ogni testimone della Shoah ancora vivente; e rivolgo il mio saluto particolare a voi, che siete qui presenti.
Cari fratelli maggiori, dobbiamo davvero essere grati per tutto ciò che è stato possibile realizzare negli ultimi cinquant’anni, perché tra noi sono cresciute e si sono approfondite la comprensione reciproca, la mutua fiducia e l’amicizia.
Preghiamo insieme il Signore, affinché conduca il nostro cammino verso un futuro buono, migliore. Dio ha per noi progetti di salvezza, come dice il profeta Geremia: «Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – oracolo del Signore –, progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza» (Ger 29,11). Che il Signore ci benedica e ci protegga. Faccia splendere il suo volto su di noi e ci doni la sua grazia. Rivolga su di noi il suo volto e ci conceda la pace (cfr Nm 6,24-26).
Shalom alechem!
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